Nota a Corte di Cassazione, Sez. IV, ud. 10/05/11, dep. il 7/6/12, n. 22045.
La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ha affermato come sia illegittimo e immotivato il diniego della sospensione condizionale della pena qualora l’ “unico argomento utilizzato” consisti nel “riferimento alla clandestinità”.
I Giudici di “Piazza Cavour”, infatti, hanno reputato, una motivazione di siffatto tipo, illogica e non satisfattiva[1].
A sostegno di tale assunto decisorio, gli Ermellini hanno richiamato:
- in generale, quel costante insegnamento nomofilattico secondo il quale “è viziata, in quanto del tutto apodittica ed apparente, la motivazione con la quale il giudice neghi i doppi benefici ad un imputato condannato per il reato di furto, trascurandone la condizione di incensuratezza e basando il giudizio negativo semplicemente sulle "precarie condizioni di vita" e sull'apparente mancanza di fonti di sostentamento, tali da dover indurre a ritenere che si trattasse di persona "dedita al crimine per vivere"”[2];
- nello specifico, quell’indirizzo ermeneutico secondo cui “è escluso che la condizione di clandestinità e, quindi, l'assenza in Italia di fissa dimora e di stabile occupazione lavorativa potesse fondare con assorbenza valutazione il giudizio prognostico negativo richiesto per negare il beneficio di che trattasi, sul rilievo che sarebbe del tutto arbitrario ricollegare la pericolosità sociale a detta condizione personale, in assenza di ogni altro elemento concreto”[3].
Quindi, i Giudici di legittimità, alla luce di tale approdo motivazionale, hanno annullato con rinvio la sentenza, sottoposto al loro scrutinio di legittimità, “per rinnovata e più compiuta valutazione e motivazione sul beneficio della sospensione condizionale della pena”.
Ebbene, tale indirizzo interpretativo è sicuramente condivisibile per le seguenti ragioni.
Innanzitutto, la “decisione appare corretta ed in linea con i presupposti previsti dalla legge ai fini della concedibilità della sospensione condizionale della pena”[4].
“Infatti, la mera condizione di “clandestino” dell’incensurato condannato non può fondare di per sé la prognosi negativa circa la futura commissione di reati che condiziona l’applicabilità del beneficio [cfr. articolo 164, comma 1, c.p.]”[5].
Per la Cassazione, infatti, l’assunto secondo il quale lo straniero extracomunitario, senza dimora e disoccupato, sarebbe per ciò solo "tendenzialmente dedito alla consumazione di illeciti" è del tutto arbitrario “ed inaccettabile, laddove essa pretende di collegare la presunzione di pericolosità sociale a detta semplice condizione personale, in assenza di ogni altro elemento concreto di segno contrario"[6].
L’orientamento nomofilattico in esame, tra l’altro, ha rappresentato il logico sviluppo ermeneutico tracciato dalla sentenza con la quale, la Corte Costituzionale, nel dichiarare “l'illegittimità costituzionale dell'art. 61, numero 11-bis, del codice penale”, ebbe ad affermare che:
Questo costrutto interpretativo, quindi, a detta della Corte, ha determinato a sua volta:
Sicchè è evidente che, alla luce di tali coordinate ermeneutiche, è inconcepibile che una mera condizione soggettiva di una persona (quale può essere quella di immigrato clandestino) possa influire sull’applicabilità di un istituto di diritto penale che, come è noto, richiede una valutazione prognostica di recidivanza concreta ed effettiva.
Quindi, non sono sufficienti considerazioni di natura preventiva quale il mancato possesso di un titolo abilitativo alla permanenza nello Stato che "non è sintomo certo di una particolare pericolosità sociale”[14].
Difatti, “le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell'id quod plerumque accidit”[15].
In conclusione, l’opzione interpretativa, prospettata dalla Corte di Cassazione in questa decisione, è sicuramente condivisibile siccome frutto di una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 164 c.p. .
Ciò nonostante (e scusate la breve digressione rispetto al tema oggetto del presente libello), non si può sottacere come ancora ad oggi, il nostro ordinamento giuridico, preveda ancora il delitto di “ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato”[16] il quale, nonostante le molteplici questioni di legittimità costituzionale, ha resistito allo scrutinio di legittimità costituzionale.
Ebbene, tale illecito penale, seppur di natura contravvenzionale, ancorando la punibilità del colpevole alla condizione soggettiva della straniero che fa ingresso illegalmente nel territorio dello Stato italiano, mal si concilia con le argomentazioni giuridiche summenzionate oltre a quelle tracciate dalla Consulta nella sentenza n. 249 del 2010.
Per giunta, anche “sul piano sanzionatorio la disciplina, nel suo complesso, è discutibile”[17] posto che:
Tuttavia, come anzidetto, la Consulta, con la sentenza n. 250 del 2010, ha reputato la norma de qua legittima per le seguenti ragioni.
In primo luogo, l’ “art. 10-bis d.lgs. n. 286/98, contrariamente a quanto invocato, non darebbe luogo ad una penalizzazione di un "modo di essere dell'agente", che si traduce in una presunzione di pericolosità sociale, alla stregua della aggravante omonima, ma, piuttosto: a) incrimina un comportamento trasgressivo delle norme vigenti ("la clandestinità non è un dato preesistente ed estraneo al fatto, ma rappresenta, al contrario, la conseguenza stessa della condotta resa penalmente illecita"); b) non è un illecito di mera disobbedienza, come tale inoffensivo rispetto ad alcun bene giuridico”[20].
In secondo luogo, l’ “interesse protetto dal reato d'immigrazione clandestina si rinviene, infatti, nel "controllo e nella gestione dei flussi migratori", oggettività giuridica di categoria alla quale vanno ricondotte tutte le norme incriminatrici contenute nel d.lgs. n. 286/98. Trattasi di bene giuridico strumentale/intermedio alla tutela di interessi-scopo, la sicurezza e l'ordine pubblico. L'immigrazione, d'altronde, non sarebbe l'unico settore dell'ordinamento nel quale si ricorre alla sanzione penale per reprimere, in via preventiva, comportamenti che, in assenza di controllo, rischierebbero di mettere a repentaglio beni finali (si pensi, per es., al settore urbanistico, all'ambiente, ai mercati finanziari, alla sicurezza sul lavoro, etc.)”[21].
Tuttavia, pur a fronte di tale costrutto argomentativo, non si può non aderire all’opinione scientifica di autorevole dottrina[22] la quale, ancora prima che questa norma giuridica entrasse in vigore, “si interrogava sulla consistenza di tale fattispecie, evidenziando come essa richiedesse semplicemente l'inosservanza di un dovere, costituito dal divieto di entrare o di trattenersi nel territorio dello Stato, a prescindere dalla concreta incidenza di tale violazione sull'attività amministrativa di controllo e gestione dei flussi migratori”[23].
Questa letteratura scientifica, infatti, ha sostenuto che “un fatto penalmente rilevante che fondi la sua illiceità 'di base' (il provvedimento trasgredito) su una valutazione delle condizioni di una persona che prescindono completamente dalla sua situazione o condotta personale 'indiziante' la pericolosità per la sicurezza o per l'ordine pubblico, non risulta pericoloso per quei beni giuridici, che rimangono sullo sfondo come beni di categoria, e, dunque, non pare conforme al principio di offensività, se non nel quadro della repressione penale dell'atto di disobbedienza che segue all'ordine e lo trasgredisce"[24].
Sarebbe auspicabile quindi, in punto de iure condendo, un intervento del legislatore che abroghi o almeno depenalizzi la succitata norma al fine di garantire un percorso ermeneutico meno ancorato alle condizioni soggettive dell’individuo e per converso, più fedele alle effettive esigenze general-preventive.
[1]Argomentando a contrario.
[2]Sezione V, 4 ottobre 2007, Pop.
[3]Sezione 6, 10 maggio 2006, Proc. gen. App. Bologna in proc. Milic.
[4]Giuseppe Amato, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trento, “SOSPENSIONE CONDIZIONALE DELLA PENA: PER NEGARLA LA CLANDESTINITÀ NON BASTA”, tratto da Il Quotidiano Giuridico - Quotidiano di informazione e approfondimento giuridico N 10/07/anno 2012.
[5]Ibidem.
[6]Cass. Sez. VI 20 maggio 1998, Citora, in Cass. Pen. 1999, p. 2536.
[7]Punto 4.1. di diritto.
[8]Ibidem.
[9]Punto 4.2. di diritto.
[10]Punto 9 di diritto.
[11]Ibidem.
[12]Ibidem.
[13]Ibidem.
[14]C. Cost., 5 marzo 2007, n. 78.
[15]C. Cost., 15/07/10, n. 254.
[16]Ossia quello previsto dall’art. 10 bis del dl.gs n. 286 del 1998.
[17]Mario La Rosa, "CLANDESTINITA’ E PROFILI D'ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE: CORTE COST. 5 LUGLIO 2010 N. 249 E CORTE COST. 8 LUGLIO 2010 N. 250”, Dir. famiglia, 2011, 03, 1406.
[18]DellaBella, “L'ultimo atto del "pacchetto sicurezza": tutte le novità in materia penale”, in Il Corr. mer., 2009, 710.
[19]Caputo, “Nuovi reati di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato, in AA.VV., Sistema penale e “sicurezza pubblica”: le riforme del 2009”, a cura di Corbetta, Della Bella, Gatta, 2009, 247.
[20]Mario La Rosa, "CLANDESTINITA’ E PROFILI D'ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE: CORTE COST. 5 LUGLIO 2010 N. 249 E CORTE COST. 8 LUGLIO 2010 N. 250”, Dir. famiglia, 2011, 03, 1406.
[21]Ibidem.
[22]M. Donini, “Il cittadino extracomunitario da oggetto materiale a tipo d'autore nel controllo penale dell'immigrazione”, in Quest. giust. 2009.
[23]Mario La Rosa, "CLANDESTINITA’ E PROFILI D'ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE: CORTE COST. 5 LUGLIO 2010 N. 249 E CORTE COST. 8 LUGLIO 2010 N. 250”, Dir. famiglia, 2011, 03, 1406.
[24]M. Donini, “Il cittadino extracomunitario da oggetto materiale a tipo d'autore nel controllo penale dell'immigrazione”, in Quest. giust. 2009, pag. 121 e ss. e 126.
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